venerdì 13 maggio 2016

Chi sa ascoltare bene, sa anche parlare bene

Deliberammo, dicevo, che ci era indifferente entrare in Nagasaki, ma era comunque opportuno passare per il porto: un luogo fuori dalle mura, allo stesso tempo cimitero per vecchie barche ad introvabile benzina e luogo di raccolta per quelle, piccole, a remi, che ancora gli abitanti usavano per la pesca. Dato il lungo percorso che ci attendeva, trovare un'imbarcazione sarebbe stato un modo agevole di proseguire il viaggio, ed eravamo pronti a pagare il passaggio con i nostri cavalli.
In effetti, c'era un'imbarcazione in grado di affrontare agevolmente il mare aperto, ma probabilmente non ce la saremmo cavata con cinque ronzini: dalle acque del porto emergeva un fiammante sommergibile battente bandiera tedesca! Anzi, per essere precisi, un U boat, l'U234. Una decina di soldati tedeschi erano accampati sull'imbarcadero.
Ci avvicinammo, meravigliati: eravamo tutti convinti che il Giappone fosse del tutto isolato dal resto del mondo dalla coltre di nebbia stregata che lo avvolgeva da anni, apparentemente insuperabile. Un giovane ufficiale ci accolse con cordialità, anche perché Hiroshi si dimostrò oltremodo deferente e lo lusingò chiamandoli alleati. L'ufficiale sorrise e affermò che la guerra era finita, Germania e Giappone non erano più alleati, ma la Germania era ancora forte, più forte degli sconvolgimenti, e avrebbe volentieri stretto nuovi rapporti amichevoli con noi. Alcuni dei loro soldati erano appunto sbarcati con l'intento di trovare interlocutori autorevoli. Dopo di che, ci allontanò con gentile fermezza.

Dunque il Kamikaze non soffiava solo sul Giappone.

lunedì 2 maggio 2016

I soldi sono posseduti a turno nel mondo

Cammina cammina, giungemmo ad una casa al limitare del bosco. Posammo le armature e ci avvicinammo, curiosi e affamati. Quando stavamo chiedendoci se per caso non fossimo usciti da un gioco di ruolo horror per entrare in una fiaba per bimbi, ecco che un tizio fu scaraventato fuori direttamente da una finestra. Tutto era a posto. Immediatamente dopo, dalla porta uscì una donna di truce bellezza con quattro scagnozzi, tutti inequivocabilmente tatuati come Yakuza. “Non farti più vedere nella mia bisca. Questa la gestiamo noi”, tuonò lei, aggressiva. Per risultare più convincenti, gli scagnozzi accompagnarono le parole della tipa con una caterva di botte, dopo le quali il tizio scaraventato fuori si allontanò zoppicando.
Subito Ataru lo seguì, curioso di sapere che cosa fosse successo. Ma noi, PG più esperti, sapevamo che il posto migliore per raccogliere informazioni sono sempre le bische e le locande. Infatti, Ataru fu maleducatamente mandato a quel paese dal tizio malmenato, e quando tornò alla bisca notò che gli scagnozzi tatuati stavano trafficando col suo cavallo.
Che era successo? Molto semplice: eravamo entrati, avevamo chiesto dei sakè ma il costo era di 500 yen! Ovviamente non avevamo di che pagare, ma Hiroshi si dichiarò disposto a giocare ai dadi scommettendo il cavallo di Ataru contro 1000 yen. Per fortuna della buona pace familiare, vinse, e anzi lanciò un'ulteriore sfida: 500 yen per il miglior bevitore di sake! Come morto, sapeva di essere imbattibile, ma si impegnò al massimo per interpretare la parte dell'ubriaco.
Vinta anche questa sfida e lasciata una generosa mancia, uscimmo, pronti a ripartire verso Nagasaki. Ma prima che potessimo slegare i cavalli, uscì anche la tipa tatuata con i suoi immancabili scagnozzi e ci chiese chi fossimo. Forse aveva già subodorato qualcosa, ma quando Ataru si presentò come Peppino San, ella intuì che stavamo fornendo nomi falsi e si disse irritata per questo. Io le feci notare che la sua irritazione ci era del tutto indifferente. Al che, lei ribadì con aria più vanamente minacciosa che la irritava essere presa in giro, e che non potevamo pensare di entrare in Nagasaki senza documenti, a meno che lei non mettesse una buona parola per noi.

Deliberammo che ci era del tutto indifferente anche entrare in Nagasaki e riprendemmo la nostra strada.

mercoledì 27 aprile 2016

Perfino un cocchiere sta meglio in divisa

 Risolta l'Oscura Questione della Pettoruta (ex) Vergine ci allontanammo dal villaggio, con maggiore o minore soddisfazione, alla volta del tempio che rappresentava la nostra meta. Mille domande si sovrapponevano nella nostra mente inquieta: perché la fu ex futura moglie di Ataru ci seguiva? Avremmo ancora visto seni come quelli di Hitomi? Chi voleva la morte dei Gorumaru? Avremmo ancora visto seni come quelli di Hitomi? Perché? E perché qualcuno voleva la morte dei Gorumaru? Takeshi aveva veramente posseduto Hitomi? Ma soprattutto, avremmo ancora visto seni come quelli di Hitomi?
Mentre così ci interrogavamo, senza avere risposte, ci addentrammo nella foresta che ci sparava da Nagasaki. Improvvisamente, percepimmo la presenza di un vivo, ma non riuscivamo a vederlo: era nascosto benissimo. Ataru ci fece segno di proseguire, come se nulla fosse: lui avrebbe aggirato e catturato l'uomo. Noi continuammo, mentre lui spariva fra le frasche.
Ed ecco, una successione di suoni: il grugnito di un cinghiale; uno sparo che esplodeva nella nostra direzione; un grido “Fermi! A quale unità appartenente?”; il fischio di una fune; l'urlo di Ataru. Ci voltammo in direzione del grido: davanti a noi, stava in piedi un ometto, con un fucile dell'ultima guerra in mano e una fascia col Sol Levante intorno alla testa. Alcuni metri dietro di lui, Ataru appeso ad un ramo tramite una corda che gli legava le gambe. Era una trappola a lazo. Astuto l'ometto. Nonostante tecnicamente ci avesse attaccato, ne fummo così ammirati da risparmiarlo.
Hiroshi cominciò a qualificarsi con i suoi gradi, e allora l'ometto depose l'arma, dichiarando di essere il Tenente Curte San, dell'Esercito Nipponico, in missione speciale dal 1942. Quindi ci indicò quale strada seguire e sparì, lesto, in un cespuglio.
Nuovo urlo di Ataru, che scendeva di schianto dal ramo tagliando la fune, e fummo pronti a ripartire.


mercoledì 20 aprile 2016

Batti il ferro finché è caldo

Siccome i bisbigli ci avevano incuriosito, decidemmo di sfruttare il fatto di essere ancora abbastanza ben conservati e di essere comparsi agli abitanti del villaggio solo nascosti da pesanti armature complete per tornare, spacciandoci per vivi, fra quei paesanotti e saperne di più. Poco lontano, trovammo un lago, presso il quale nascondemmo le armature e ci apprestammo a lavarci.
Hiroshi, poco lontano da noi, improvvisamente vide un gruppo di donne, accompagnate da alcuni guerrieri, intente a lavare. Non potendo nascondersi, decise di andare loro incontro, raccontando una storia: disse che eravamo stati aggrediti da alcuni banditi, che avevano trucidato la nostra scorta e rubato i nostri cavalli, e chiese asilo.
Gli uomini furono cortesi, ci portarono al villaggio di Jaigo e qui ci introdussero al capo, felicemente ricongiunto con la prosperosa figliola (che da subito cominciò a guardarci con interesse), che fu ancora più cortese quando scoprì che eravamo dei Goromaru, partiti dal nostro paese (così dicemmo) pochi giorni prima. Il vecchio assunse un'aria contrita nel dirci che il nostro villaggio era stato aggredito, che tutti erano morti.
Oltre a ciò che già sapevamo (ma fummo magistrali nel recitare la parte degli stupiti e addolorati) ci disse anche che nei mesi precedenti, alle riunioni dei capi villaggio, capoclan Goromaru gli aveva parlato di un affare, che aveva inteso essere pericoloso e lucroso, ma non aveva spiegato i dettagli, e lui del resto non aveva voluto entrarci. Che fosse quella la causa della strage?
Con altre astute domande venimmo anche a sapere chi era quella ragazza di cui avevamo sentito bisbigliare: una bella donna che si era presentata al villaggio due giorni prima, aveva fatto previsioni riguardo all'arrivo di tre Kami che avrebbero sconfitto il demone e aveva detto di guardarsi da loro. Poi era sparita. Come sappiamo, i fatti si erano realizzati. Ma l'aspetto inquietante era che la descrizione della donna coincideva perfettamente a Fiore di Pesca, la promessa sposa di Ataru (la quale aveva del resto vistose caratteristiche inconfondibili): evidentemente, ci aveva seguiti. E, se non ci eravamo accorti di lei, doveva essere morta.

Dopo questa conversazione, andammo a fingere di dormire una notte tranquilla, per poi ripartire il mattino dopo, alla ricerca di qualcuno che potesse darci ulteriori dettagli sugli affari di Goromaru, possibilmente sulla strada per Nagasaki. Appena usciti, per inciso, Takeshi cominciò a raccontarci una vicenda a cui nessuno dette credito, la cui trama era evidentemente tratta da un film erotico: a suo dire, l'avvenente fanciulla da noi salvata si era presentata al suo letto con un coltello, l'aveva prima minacciato con la lama dichiarando di averci riconosciuti, per poi far sparire il coltello con un gioco di prestigio, scivolar fuori dal chimono e, con un nuovo gioco di prestigio, far ripetutamente sparire anche il naturale arpione del Takeshi desnudo.

giovedì 14 aprile 2016

Alla porta di chi ride, fortuna giunge

Così discorrendo di questioni mediche, giungemmo infine presso la porta del villaggio, dove ci aspettavamo di essere accolti da inni al nostro eroismo. Invece, le porte rimasero ben serrate, mentre gli spalti delle mura si colmavano di gente apparentemente intenta a bisbigliare. Sembravano perplessi dal ritorno della fanciulla che stavamo accompagnando, salva.
«Abbiamo sconfitto il demone, vi riportiamo la fanciulla», proclamò Hiroshi.
Bisbigli.
«Abbiamo sconfitto il demone, vi riportiamo la fanciulla», riproclamò Hiroshi e estrasse dal sacco la testa del demone.
Ribisbigli, più stupiti, con un quasi impercettibile “...allora quella ragazza...”.
Prese la parola il padre della fanciulla, nonché capo del villaggio (quello che avrebbe saputo come ricompensarci), dicendo che eravamo stati bravi e chiedendo cosa volessimo in cambio.
«Quel che vuole la consuetudine», risposi. Avevo ancora un certo pudore a dire: “Uno di voi per merenda”. Pareva cinico.
L'uomo rispose che potevamo tenere sua figlia: lei era la prescelta per il sacrificio, lei aveva avuto l'onore di sacrificarsi per il villaggio. Padre snaturato. Ora, noi, che avevamo il cuore e non solo il cuore non ancora reso insensibile dalla morte, ci eravamo un poco affezionati alla ragazza, e ci spiaceva ora mangiarla. Del resto anche andare a letto senza cena non era piacevole.
«Ti sentiresti molto offesa se non ti mangiassimo?», chiesi alla ragazza, per evitare equivoci. Ella rispose, piangendo, che non l'avrebbe presa sul personale se l'avessimo risparmiata.
«Tecnicamente», dissi rivolto al padre, «lei era prescelta come sacrificio al demone, che pretendeva donne avvenenti. Quella partita è chiusa. A noi va bene anche una brutta, magari anziana...».
Sugli spalti ci fu qualche tentennamento, ma alla fine il padre non fu convinto. A quel punto Hiroshi sbottò: «E riprendetevi la ragazza!». E si voltò per andarsene. Lo seguimmo.

Bisbigli. “...allora quella ragazza non aveva detto il vero...”. Bisbigli.

domenica 10 aprile 2016

Quando il carattere di un uomo ti sembra indecifrabile, guarda i suoi amici 1 parte

È bello osservare la meravigliosa armonia del mondo, anche in questa desolazione di morte, quando si libera di un'aberrazione come quella del demone che avevamo appena sconfitto: le piante che sembrano odorare più forte, gli augellini che cantano, il rivo che gorgoglia dipresso, i vasti seni di Itomi che danzano ad ogni passo di lei nel sollievo della salvezza. Ella ci ringraziava quasi saltellando e ci invitava ad andare al suo villaggio, Jaigo, dove suo padre, il capo villaggio, avrebbe saputo come ricompensarci, anche se noi protestavamo che non era il caso di incomodare suo padre per la ricompensa: poteva pensarci lei.
Fatto sta che, dopo che Hiroshi ebbe tagliata la testa al demone, ci avviammo verso il villaggio, fra le ridenti colline. Era un vero peccato quanto poco si badasse a piante, augellini e rivo: forse ci saremmo lasciati pervadere da sentimenti di pace e non da quelli che ci presero in effetti. Comunque, era bello constatare che rispetto a quando eravamo vivi non eravamo cambiati poi molto, quanto ad istinti. Nacque così una dotta disquisizione sulla possibilità o meno dei morti di poter ancora amare, ancora avere un'erezione: c'era chi lo negava, per mancanza di circolazione sanguigna; chi asseriva che invece avevamo ancora sangue in noi, e che a comunque avevamo il controllo sui nostri arti. Alla fine, Takeshi risolse la questione guardandosi nei pantaloni.

martedì 29 marzo 2016

Chiedere è vergogna di un momento, non chiedere è vergogna di una vita

Hiroshi, da dentro, riuscì a cogliere la belva di sorpresa, e con la sua Nodachi quasi le divise la testa. Quella non sembrò patirne troppo: con una mossa rabbiosa colpì il nostro amico scagliandolo lontano, per fortuna con più danni all'armatura che alla pellaccia. Intanto, noi accorrevamo, facendoci largo fra i normali felini, che sventravamo due o tre alla volta, mentre Ataru saettava contro di loro. La belva provò la fuga, ma per sua sfortuna andò verso Ataru, che riuscì ancora a colpirla prima che quella gli fosse addosso, buttandolo a terra. Bastò quell'attimo: tutti, tranne Takeshi che giaceva in terra coperto di gatti come non è accaduto nemmeno a Pippo (ma molto più arrabbiati) fummo addosso alla belva e la colpimmo ripetutamente. Colpì ancora Hiroshi, ma infine con un colpo preciso riuscii a tagliarla di netto in due: la facemmo a brandelli senza problemi.
Intanto Takeshi continuava a lottare coi mici, i quali contro le nostre aspettative non si erano dispersi dopo la sconfitta dello spirito. Mentre correvamo da lui per liberarlo, Ataru scoccò una freccia precisa, che trapassò un gatto seccandolo sul colpo. Disgraziatamente, il precisissimo tiratore non aveva considerato che il felino si trovava sulla gamba di Takeshi, sicché il dardo dopo aver trapassato le fragili carni dell'animale si piantò profondamente nella coscia del nostro amico. Quello fu il maggior danno riportato dall'attacco della torma di felini.


Finita la battaglia, ci sedemmo: strano a dirsi per dei morti, ci sentivamo esausti. La vista della fanciulla, che ci correva incontro per ringraziarci dell'impresa, ci risollevò comunque il morale etc.

mercoledì 23 marzo 2016

Dare Koban ai gatti

Era il quarto anno che l'orrendo rito si ripeteva, e non potevamo nemmeno immaginare come potessero essere le tre fanciulle sacrificate negli anni precedenti. L'ira ribolliva nei nostri petti (e non solo), così giurammo che avremmo posto fine a quella schiavitù, e tra l'altro non l'avremmo nemmeno voluta come sacrificio. Non come sacrificio alimentare, quanto meno.
Decidemmo subito una strategia. Innanzi tutto, la fanciulla avrebbe dovuto spogliarsi, in modo da vestire uno di noi, Hiroshi, con quegli abiti e chiuderlo dentro la portantina, che portammo entro le rovine di un antico recinto sacro, che era il luogo dove veniva lasciata la vittima. Noi ci appostammo attorno: Ataru leggermente discosto, con il suo arco, noi più vicini. La ragazza rimase con noi, perché se fosse tornata al villaggio sarebbe stata certo accusata di essere fuggita al suo destino, mettendo tutti a rischio. Disgraziatamente, Sasaki aveva un kimono da prestarle.

Attendemmo sino al calare delle tenebre. Quando fu scuro, ma grazie alla luna non così scuro che non si potesse vedere nulla, percepimmo una serie di ombre avvicinarsi alla portantina. Guardammo meglio: erano dei gatti scuri. Ma non i gatti carini e coccolosi, bensì inquietanti, sebbene non facessero nulla di male, a parte assemblarsi in modo innaturale. Improvvisamente, percepimmo una presenza, non viva ma piena di potenza, sopra la portantina: un altro gatto, ma enorme, lungo forse cinque metri, che era evidentemente lo spirito.
Era il momento: balzammo all'attacco.

mercoledì 2 marzo 2016

Non tutte le donne sposate sono mogli

Lasciato il leggendario ronin Batto, ci avviammo verso il tempio della Sacerdotessa di Ise: la via più breve per Kyoto era passare per Nakasaky. Avrei rivisto i luoghi nei quali ero vivo! Che effetto mi avrebbero fatto?
Mentre camminavamo, senza posa e senza sentire la fatica come accade a noi Kami, discutevamo della nostra nuova condizione di Ronin: in quanto morti, e quindi senza circolazione sanguigna, avremmo ancora avuto la capacità di possedere una donna? Tali discorsi mi riportavano alla memoria la giovane Gorumaru, mentre Ataru ricordava la sua Fiore di Pesca scomparsa. Insomma, la passeggiata somigliava moltissimo ad una cena fra vecchi compagni di classe che ricordano l'adolescenza.
Improvvisamente, percepimmo l'avvicinarsi di esseri umani. Continuammo per la nostra strada, finché il Destino non ci portò ad incontrarli. Erano quattro uomini che trasportavano una portantina chiusa: non appena ci intravidero, cominciarono a gridare:
«Gli Oni, gli Oni!»
E fuggirono via. In quel momento, emerse prepotente il mio antico spirito di insegnante, e gridai di rimando:
«Kami! Ingnoranti, siamo Kami, non Oni!»

Simultaneamente, Ataru si lanciò al loro inseguimento, credo per illustrare meglio la differenza. Noialtri, invece, ci avvicinammo alla portantina: dentro, vi era una fanciulla le cui poppe ragguardevolissime fugarono immediatamente ogni dubbio riguardo al tema discusso sino a poco prima. Era spaventatissima, ma quando l'avemmo rassicurata sulle nostre buone intenzioni e sulla nostra buona fede di Ronin (e quando si fu resa conto che divorarla era l'ultimo dei pensieri che facevamo al suo riguardo), ci raccontò la sua storia: uno spirito feroce aveva attaccato il suo villaggio, aveva già sconfitto altri Ronin, e l'unico modo di tenerlo a bada era stato quello di sugellare, con un rito magico, un tremendo patto, ossia l'offerta, ogni anno, della fanciulla più bella del paese. 

martedì 16 febbraio 2016

Anche Buddha fu una volta un uomo comune

Proseguimmo fino a sera, quando incontrammo un tizio, anche lui kami come noi, con un gran cappello di paglia: solo dopo che gli avemmo rivelato le nostre identità, ci svelò la sua. Per accertarsi che Sasaki fosse veramente chi affermava di essere, lo sfidò anche in un duello rituale nel quale entrambi mostrarono straordinaria capacità nell'uso della katana.
Egli era il leggendario ronin Batto (uno che massacra anche i vivi malvagi), il quale ci rivelò di essere partito dal tempio di Ise proprio alla ricerca dei discendenti di Goromaru, che, a suo dire, molti volevano morti, ma non sapeva perché. Diciamo che avrebbe dovuto arrivare in tempo per trovarli ancora vivi e “salvarli da un atto inaudito di crudeltà”, ma Kyoto era lontana da Nomekualsiasj, e ad ogni modo meglio morti che niente.

Ci propose dunque, per saperne di più, di raggiungere la Sacerdotessa di Ise, da lui definita (con scarso rispetto per l'Imperatore) “l'unica figura nobile del Giappone”.

lunedì 8 febbraio 2016

Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero

Intanto, il villaggio continuava ad essere una sorta di attrattiva locale: poco dopo Ataru, si presentò un tizio bardato da capo a pieni di un'armatura samurai come la nostra, che era evidentemente un Kami come noi dal momento che non percepivamo la sua presenza.
«Sono Sasaki Koijro», dichiarò pieno di orgoglio.
Un nome familiare. Fu però Takeshi a raccontare con saccenteria la sua storia: Sasaki Koijro era un antico samurai, valorosissimo ed imbattibile finché non si fece attrarre in una palude dove affogò con l'aiuto di un semplice colpo di bastone. Un valorosissimo, ma magari non il migliore degli strateghi, ecco.
In quel momento, avvertimmo la fame. La fame tremenda dei morti, che non poteva essere saziata da nessun sushi o banchetto nuziale. Mentre soffrivamo, Sasaki cominciò a predicare che dovevamo superare la prova della fame per diventare Ronin, altrimenti avremmo ceduto alla tentazione di mangiare i vivi (mentre avremmo dovuto limitarci a quelli offertici in ricompensa o a coloro che ci avrebbero attaccato).

Fatto sta che partimmo affamatissimi sulle tracce lasciate dai nostri aggressori.

Cammina cammina, avvertimmo un gruppo di vivi in arrivo. Ci nascondemmo fra le frasche, salvo Takeshi che si mise in evidenza fra le frasche, in un patetico tentativo di nascondersi. Fatto sta che quando arrivò il gruppo di vivi, che poi erano un gruppo di sanguisughe, gli passarono oltre sbeffeggiandolo, sapendo che i Ronin non possono nuocere ai vivi.
Quando il nostro pranzo sembrava oramai essere passato oltre, accadde una cosa stranissima: l'ultimo della fila si girò, sguainò la spada e camminò, con passo incerto, verso Takeshi; quindi, lo colpì pianissimo con la spada, implorando al contempo pietà con una voce terrorizzata. A ogni buon conto, ci aveva attaccato: accorremmo tutti in aiuto di Takeshi, uccidemmo e divorammo lo sventurato ma appetitoso vivo. In realtà, Ataru prima chiese il permesso due volte.

martedì 2 febbraio 2016

La moglie e il tatami sono meglio quando sono nuovi

La nostra prima occupazione fu, quindi, di ridurre a pezzi i vari membri della famiglia Goromaru, servitù compresa; poi girammo per il paese: la strage degli abitanti era stata completa, ma non c'era traccia degli aggressori, che dovevano essere bene organizzati, perché quasi tutti erano stati uccisi con un solo proiettile. Alcuni roghi erano stati predisposti, ma evidentemente le Sanguisughe erano state disturbate (da chi?), perché non avevano compiuto la loro opera. Solo i nostri corpi, però, erano stati composti: come se fossero venuti esplicitamente a cercare proprio noi. Strano a dirsi, non avevano razziato le ricchezze di casa Gorumaru.
Ad interrompere la nostra operazione di riequilibrio fra morti e vivi, rendendo i morti del tutto morti, fu il promesso sposo, Ataru, che si presentò ancora col kimono da sposo, tutto insanguinato: morto e consapevole pure lui. Piangeva disperato. Anche lui, pur trovandosi in un'abitazione poco distante in attesa di convolare a nozze, aveva vissuto una notte di massacro e al risveglio la sua sposa era sparita: non si trovava né fra i vivi, né fra i morti.
La morte non ci aveva reso meno signorili, sicché evitammo ogni commento su quanto fosse condivisibile la scelta dei briganti di non uccidere quel gran Fiore di Pesca.

Cercammo di mettere assieme gli spezzoni di quella notte, ed emerse che chi ci aveva attaccato vestiva abiti con un'insegna militare, quella dell'unità 731.



Shoji Ito

sabato 30 gennaio 2016

Quello che non sai non può ferirti.

Nella vita si trova il germe della morte, i morti hanno un principio di vita: mai come da quando il kamikaze, il vento sacro, ha iniziato a spirare su queste lande gli effetti di tale principio si sono rivelati anche agli ingenui.
Avrebbe dovuto essere un giorno di festa: ero tornato al mio natio villaggio di Nomozaki, nei pressi del monte Gongen (dove gli invasori alieni sono soliti costruire una loro base, per dare il via all'invasione della terra, ndr), non lungi da Nakasaki, dove vivo, per festeggiare con i miei cugini della potente famiglia dei Gorumaru il matrimonio del più ricco dei loro cugini, Ataru Gorumaru, con Haniko detta Fiore di Pesco, una donna i cui seni eccedono largamente ogni principio di equilibrio e moderazione insito nel Tao, ma non per questo risulta disprezzabile. Invece di una notte di baldoria, avemmo una notte di lutto.
Ne ho ricordi vaghi: sangue, violenza, sanguisughe che attaccano. Mi svegliai la mattina con un buco di pistola nella pancia, disposto vicino ai miei cugini Hiroshi e Takeshi Gorumaru: morti anche loro. Attorno, tutti gli altri membri della famiglia, inclusa la cugina carina che aveva sempre reso più interessante la frequentazione della loro famiglia (per motivi eminentemente decorativi, sia chiaro, giacché mai l'avrei sfiorata anche solo con il pensiero...no, col pensiero sì, ma nemmeno con un dito, per rispetto ai miei cugini) vagavano senza senno e senza costrutto, ridotti a semplici Shiryo. Guardai i miei cugini, e riconobbi la coscienza nei loro occhi: capimmo tutti di essere diventati degli Immortali, e quindi Ronin con il preciso compito di difendere i vivi dagli altri morti. Così aveva voluto il Tao.

Vestimmo antiche armature da Samurai degli avi dei Gorumaru, accompagnando il gesto con solenni giuramenti: Hiroshi giurò solennemente di cercare vendetta per quella strage (anche se avrebbe dovuto dare la caccia ai vivi, e quindi sviare dal Bushido), io preferii restare più sul vago (“giuro di comportarmi bene”...).


Shoji Ito